Il lutto del cambiamento: quando una figlia parte per l’anno all’estero
Quando si parla di lutto viene un certo disagio perché lo si riconduce alla morte e sappiamo bene quale rapporto difficile ci sia con essa per la nostra cultura. Eppure il lutto, cioè quel processo di adattamento a cambiamenti più o meno profondi, più o meno duraturi, si manifesta anche in altri momenti della vita, non necessariamente legati alla morte.
Lo sto vivendo in prima persona in questi mesi, accompagnando la mia figlia di mezzo nel cammino che ha scelto da quando era bambina e per cui si prepara ormai da tre anni.
Lei – da sempre? – desidera andarsene dall’Italia.
Fin dalla prima superiore – cioè tre anni fa – si impegna con costanza per ottenere i migliori risultati possibili, nella speranza di conquistare una borsa di studio che le permetta di vivere quello che viene comunemente chiamato ‘l’anno all’estero’: frequentare, cioè, il quarto anno di liceo in un paese straniero. Con la sua determinazione, ci ha portati su un sentiero sconosciuto, della cui complessità non avevo idea.
Ha partecipato al concorso Intercultura e ha vinto la borsa di studio per il programma di anno all’estero in Cile. Patirà a fine luglio e rientrerà a metà giugno 2026.
Non ce lo immaginiamo… Come sarà quest’esperienza?
C’è chi strabuzza gli occhi: “In Cile? Ma che paese è? Non è pericoloso? Poi così lontano!”
Altri sorridono stupiti: “Dai! Che bella esperienza!” Senza saper aggiungere altro, perché – in effetti – non si ha idea di cosa comporti veramente.
Ecco perché Intercultura si impegna al massimo per trasmettere l’esperienza maturata in decenni di attività sul campo, aiutando i ragazzi a partire con maggiore consapevolezza di ciò che li aspetta.
Non lascia indietro nemmeno i genitori, perché per un ragazzo che si allontana, c’è una famiglia che farà senza, per un anno. E un anno significa niente Natale, compleanni, Pasqua, domeniche, gite, liti, abbracci, risate, vita insieme.
In questo anno possono accadere molte cose impreviste: è ciò a cui pensano i nonni, per esempio, domandandosi se ci saranno – ancora vivi e vegeti – al loro rientro.
In questo momento, tutti noi stiamo vivendo una sorta di lutto anticipatorio: stiamo cercando di prepararci al saluto, al ‘fare senza’ per un periodo così lungo da risultare quasi impossibile da immaginare. Chi dice che un anno passa in fretta, finisce per sminuire. È un po’ come quando, di fronte a un lutto, si dice che col tempo passerà. Abbiamo la naturale tendenza a distogliere lo sguardo da ciò che fa male e su cui non abbiamo controllo, per rivolgerlo a ciò che può darci sollievo.
Non sappiamo stare, nemmeno con famiglie di studenti espatrianti.
Durante le giornate di formazione dedicate a noi genitori, sono sempre presenti alcuni ragazzi che hanno già vissuto l’esperienza all’estero e condividono ciò che hanno imparato. Non riescono davvero a spiegare a parole… Tutti racchiudono undici mesi della loro vita lontano in una sola frase: ‘Mi ha cambiato la vita.’ Lo dicono con gli occhi lucidi, tremando per l’emozione. Quelle parole non bastano, è evidente, ma non ce ne sono altre. Perché quando si parla di emozioni, le parole spesso non sono sufficienti. Anzi, proprio non riescono a esprimere tutto. Tra loro si guardano, si annuiscono: sanno. Sanno perché l’hanno vissuta in modo simile, mai uguale, ma con quel qualcosa di inspiegabile che li lega. Così, in qualche modo, si capiscono.
Mi è chiaro e netto che sarà un’esperienza che non potrò né capire davvero, né immaginare appieno. Mia figlia farà qualcosa che va oltre il mio controllo: potrò accogliere e supportare, ma non potrà mai essere davvero mia. Dovrò farmi da parte, lasciarle instaurare un legame privilegiato con un’altra famiglia, con una madre cilena che chiamerà ‘mamma’ e che sarà il suo punto di riferimento là, perché io non ci sarò. Non vedrò, non comprenderò, arriverò – forse – parzialmente in differita (il fuso orario è di almeno 6 ore).
Stiamo provando a immaginare come sarà salutarla e poi andare via. E già abbiamo il magone. Lo facciamo e lo rifacciamo sperando che poi – quel magone – si strozzi un po’ meno. Perché immaginare è come vivere davvero. Ci pre-occupiamo: creiamo quelle connessioni cerebrali che fungono da mappa, da ricordi, da traccia per non trovarci impreparati. Eppure lo saremo, perché nulla è mai come immaginiamo. Si presenta sempre un’eccezione, un imprevisto…
In questa esperienza che abbiamo voluto, desiderato, sostenuto e preparato con cura, al centro c’è, quasi come protagonista, il processo del lutto. Non siamo abituati a chiamarlo così, e forse qualcuno si indignerebbe per questa mia scelta, pensando che il lutto valga solo per il dolore causato dalla morte. Eppure, ogni volta che c’è una ridefinizione dell’identità, si intrecciano inevitabilmente anche le dinamiche del lutto.
Noi cambieremo. Non importa che sia in meglio – e non è detto che sarà in meglio! – questa modifica comporta stress, fatica, riadattamento, energia.
Ogni volta che diventiamo qualcosa di nuovo, lasciamo indietro dei pezzi per far spazio ad altri. C’è chi lo fa inconsapevolmente; per me, invece, è difficile non farci caso — una deformazione professionale, forse.
Anche le esperienze felici e desiderate possono comportare il lutto.
Questo perché la dinamica non è esclusiva della morte. Piuttosto è esclusiva della vita.
Il lutto del cambiamento: quando una figlia parte per l’anno all’estero