Aiutare significa costruire ponti, non muri

Aiutare significa costruire ponti, non muri

La reazione degli altri di fronte al lutto perinatale è spesso deludente.

C’è chi minimizza, chi cambia discorso, chi evita del tutto.

Così, chi sta soffrendo si ritrova solo, senza la possibilità di raccontare e raccontarsi.

Il dolore resta dentro, e scava.

L’indifferenza o l’incomprensione fanno male, e allora, la rabbia diventa una reazione di difesa.

È comprensibile.

La rete è piena di contenuti arrabbiati o strafottenti, che attaccano, deridono o accusano chi non sa accogliere questo dolore.

Sfoghi legittimi, soprattutto quando vengono da chi ha vissuto una perdita così profonda.

Ma quando questo atteggiamento viene cavalcato per collezionare consensi, da chi si propone di aiutare, non è giustificabile.

Va detto, anche se può apparire scomodo: tutto ciò non è costruttivo.

Perché aiutare non significa alimentare la distanza tra chi soffre e chi non sa stare.

Aiutare significa facilitare la comunicazione, non prendere posizione in un conflitto.

Dovremmo piuttosto spiegare che la nostra cultura ha un problema con la morte, con il lutto, con il dolore — sia proprio che altrui.

Lo possiamo osservare in modo semplice, chiedendoci quanto siamo noi, in generale, capaci di stare accanto alla sofferenza degli altri.

Salvo eccezioni, la maggior parte di noi ha imparato a trovare strategie per evitare ciò che fa male, anche nelle piccole cose.

Hai passato una notte in bianco?

«Va beh, dai, stasera andrai a letto prima.»

Hai perso un figlio in gravidanza?

«Va beh, dai, ne farai un altro.»

Il treno è in ritardo?

«Eh, la prossima volta prendi la macchina.»

E così via.

Questo accade perché, semplicemente, non ci è stato insegnato a stare.

Anzi: ci hanno insegnato a deviare, a risolvere, a spostare lo sguardo.

E allora possiamo domandarci: quante volte siamo stati anche noi, senza volerlo, inadeguati?

Quante volte siamo sembrati insensibili perché non sapevamo stare o non comprendevamo il peso di un’esperienza che non avevamo vissuto?

La rabbia è un’emozione difensiva e adattiva, ma anche una fase del lutto: ci serve per sopravvivere al dolore, per non esserne travolti.

Ci permette di indirizzare la nostra energia verso qualcosa di “gestibile”: gli altri.

È più semplice arrabbiarsi con chi non ha capito, che stare fermi davanti al vuoto.

Quindi sì: essere incompresi è inevitabile, nelle condizioni in cui siamo.

E arrabbiarsi per questo è naturale.

Ma aiutare — davvero — significa mostrare come funziona questa dinamica, e provare a trovare una forma di mediazione.

La critica più comune è:

“Ma devo essere io, che già sto male, a spiegare all’altro perché e come dovrebbe starmi accanto?”

Sì, perché l’altro, se non ha vissuto qualcosa di simile, non può capire da solo.

E se chi lo ha vissuto non prova nemmeno a spiegarlo, non può esserci comprensione.

Proviamo a metterci dalla parte di chi non sa.

Come ci sentiremmo se qualcuno pretendesse da noi empatia per qualcosa che non conosciamo, senza nemmeno provare a raccontarcela?

Perché la verità è semplice: se vogliamo essere compresi, dobbiamo spiegare.

Questo vale sempre, in ogni relazione.

Certo, anche spiegando, non è detto che l’altro comprenda o cambi.

E allora dobbiamo riconoscere che ognuno vive la realtà a modo suo, e forse — semplicemente — in questo momento non c’è sintonia.

Ma questo non cancella ciò che c’era prima: forse è solo il momento di una pausa.

Una distanza necessaria.

Un tempo da rispettare.

Le persone possono deluderci.

Ma possiamo anche chiederci: perché pretendiamo che l’altro sia come vorremmo noi?

Perché non cercare luoghi, relazioni, contesti in cui sentirci davvero accolti?

Non c’è torto o ragione.

Ci sono due esperienze, due fatiche, due punti di vista.

Aiutare, secondo me, significa costruire ponti. Non muri.

Per questo nasce il laboratorio esperienziale “Quando gli altri non capiscono”.

Aiutare significa costruire ponti, non muri

Commenta