accompagno le persone attraverso il lutto perinatale e il lutto

Natale Senza

Dalla soffitta scendono le scatole di addobbi e in una sono conservati i cappelli di Natale. Ognuno ha il proprio: il mio è diventato un cerchietto che monta in cima un sorridente pupazzo di neve.
Lo indosso ogni Natale da quel Natale: l’unico e l’ultimo Natale ‘con’.
Allora il mio ventre custodiva un segreto, non ero sola.

Il successivo invece è stato il primo Natale Senza: Senza una bimba che sarebbe dovuta essere già qui, Senza un’altra bimba che di lì a poco sarebbe dovuta nascere.

La morte fa così: lei arriva, porta via e lascia Senza.
Senza più sorriso, senza più presente, senza più speranza, senza più immaginazione.

Quanto è ingombrante questo Senza?
Quanta eco genera questo Senza?
Ma poi cos’è questo Senza?

Senza è stato l’incredulità dello scoprirmi sola, poi la rabbia di non capire perché, quindi la desolazione di non trovarne il senso, fino al dolore sordo dell’impotenza.

Senza sembrava sopraffarmi, sembrava essere esso stesso al timone della mia esistenza: una vita ormai irrimediabilmente Senza.

Finché nella mia mente ha fatto capolino un pensiero:

la morte lascia Senza, ma Senza è ancora una cosa mia.

Senza è ciò che ha preso il posto di chi non c’è più: l’ha sostituito con l’incredulità, la rabbia, la desolazione, il dolore…
Perciò è questo che succede? Della parte più magica della mia esistenza non mi resta che incredulità, rabbia, desolazione e dolore?

Non mi piace affatto: Senza è una cosa mia e decido io come deve essere.

Senza è una piccola vita che ho custodito. Senza è una piccola vita che ho accompagnato nella sua crescita. Senza è una piccola vita che ho protetto. Senza è una piccola vita che ho amato, immensamente. Senza è una piccola vita che ho lasciato andare. Sì, l’ho lasciata andare: ho scelto di assecondare la sua naturale propensione, in fondo non è questo che dovrebbe fare una madre?

No, non è stato facile: per nulla!

Ho dovuto prendere l’incredulità e renderla credibile; poi la rabbia, ascoltarla per bene e trovare il modo di farla sbollire; quindi il senso, ecco questa è stata proprio l’occasione di intraprendere un’accurata ricerca. Infine l’ammissione: certo che sono impotente. Certo che non posso farci niente: io sono solo umana! Posso accettarlo? Temo che dovrò. Dunque, se sono umana, anche io prima o poi morirò e lascerò Senza, perciò Senza è un testimone che oggi ho io, ma domani passerò ad altri…

Okay, allora questo Senza deve essere un bel posto, pieno di speranza, di bei ricordi, di coraggio, di fiducia e di amore. Soprattutto amore. Deve essere un tempo senza tempo: deve potersi appoggiare sulla punta dei ricordi e poi volare via. Oppure attraversare i sogni. Anche uscire in un sorriso, una carezza, uno sguardo verso l’infinito. Perché è questo che voglio tenere di chi non ho ed è questo che vorrei lasciare quando me ne andrò. 

Senza è diventato parte di me. Una parte che mi porto appresso e che, insieme al resto, tramanderò. Una parte importante che contribuisce a costruire il Senza dei miei figli.

Senza è una tappa, ma anche una meta: mia e non solo mia.

Allora questo Senza lo arrediamo insieme, un po’ per volta, giorno per giorno, anche a Natale.

Le piccole mani affondano nelle scatole piene di addobbi, io prendo il mio cerchietto col pupazzo di neve sorridente e lo infilo. Anche quest’anno apparentemente nello stesso modo degli anni passati, eppure anche quest’anno in un modo ancora diverso. Sempre più sicuro. Sempre più sereno.

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