Tutte le sofferenze hanno diritto di parola
In questi giorni ho condiviso l’iniziativa del Cerchio di parola rivolto a chi sta soffrendo dopo un’interruzione volontaria di gravidanza, con il desiderio di offrire uno spazio sicuro e accogliente per chi porta dentro di sé una ferita spesso taciuta.
Una delle persone a cui l’ho inviata si è sentita profondamente offesa, avendo vissuto aborti spontanei. Voglio partire da qui per proporre una riflessione.
Non è comprensibile — né giustificabile — che chi ha attraversato un dolore così grande perda la capacità di riconoscere il dolore degli altri, solo perché ha avuto origine da una scelta. Il fatto di essere contrari all’interruzione volontaria implica, semplicemente, che non la si compirebbe. Ma non dà diritto a giudicare o condannare chi, per ragioni profonde e spesso laceranti, si è trovata a fare quella scelta.
Accade che chi ha perso un figlio in modo spontaneo percepisca come “ingrata” o “colpevole” chi ha interrotto una gravidanza. Ma le due storie non hanno niente a che vedere. Anche se tutte le donne del mondo decidessero di portare avanti gravidanze indesiderate, quel bambino che è morto non tornerebbe indietro. Il lutto resterebbe. Ed è comprensibile che si cerchi qualcuno su cui riversare un dolore così devastante. Ma non ha senso.
Prendersela con altri è uno dei modi in cui si manifesta il lutto. Diventare intransigenti, giudicanti, rigidi: è il tentativo disperato di recuperare un controllo che non abbiamo più. Né sulla vita dei nostri figli, né su quella degli altri.
L’unica cosa che possiamo davvero controllare è la nostra reazione a ciò che ci accade.
Possiamo scegliere di non farci travolgere dal dolore al punto da diventare incapaci di vedere. Possiamo riconoscere che chi ha interrotto una gravidanza può essere a sua volta in preda alla solitudine, al vuoto, al silenzio. Può aver compiuto una scelta durissima, forse necessaria, ma comunque traumatica, segreta, colma di emozioni senza nome.
Chi giudica si mette in posizione di superiorità. Ma davvero è questo che vogliamo?
Sentirci migliori degli altri per lenire il nostro stesso dolore?
Oppure possiamo riconoscerci nella fragilità e aiutarci a vicenda?
Non tutti i dolori si somigliano, ma tutti meritano rispetto.
Il dolore può renderci duri, chiusi, a volte anche farci assumere atteggiamenti discriminanti. È bene saperlo, per guardarci dentro e capire se vogliamo davvero restare così, o se possiamo aprire uno spiraglio, un varco verso la gentilezza, verso una possibilità di evolvere.
A chi si è sentito attaccato o giudicato da persone in lutto perinatale, vorrei dire: quando il dolore parla, può travolgere tutto – anche la lucidità, la generosità, l’umanità. Quella rabbia che arriva non è cattiveria gratuita: è una forma di sofferenza urlata. E se l’hai ricevuta, puoi scegliere se reagire con nuove chiusure o con consapevolezza e compassione.
Solo la conoscenza di questi meccanismi può rimetterci in relazione.
A volte, la via più saggia è il silenzio e l’attesa, affinché la ferita possa rimarginarsi e aprire nuovi spazi di pensiero.
Sii gentile. Sempre. Non puoi sapere quale dolore abiti nel cuore degli altri.
Tutte le sofferenze hanno diritto di parola