accompagno le persone attraverso il lutto perinatale e il lutto

Cose da non dire…

Cose da non dire…

Molto spesso mi trovo di fronte alla rabbia di chi sta vivendo pezzi dolorosi della sua esistenza senza che il mondo intorno se ne accorga e/o sappia come fare per interagire con lei/lui.

Nascono così i decaloghi delle cose da non dire/fare/baciare/lettera e testamento.

Sì perché spesso, quando ci troviamo dalla parte del dolente, non ci ricordiamo come siamo stati dalla parte di chi stava di fronte al dolente e facilmente anche noi abbiamo detto/fatto/baciato/lettera e testamento le stesse cose.

«Ah, ma io no! Io sono una persona empatica!»

Mmmh… L’empatia non è quello che pensano la maggior parte delle persone: non è sapersi mettere nei panni degli altri e sentire su di sé ciò che l’altro sta sperimentando. In quel momento lì tu stai sentendo quel che senti tu, non quello che sta sentendo l’altro. E se quel che l’altro sta vivendo per te è un’inezia, ecco lì che fai il tuo scivolone e ti becchi dell’insensibile, alla faccia dell’empatia che credi di provare.

Empatia è qualcosa di più, si tratta di sentire l’altro, non se stessi, a prescindere da ciò che si pensi del mondo e della vita, quindi senza giudizio, accogliendo quel che l’altro porta così com’è.

Difficile. Molto.

Comunque, alla fine arrivano i decaloghi che ci mettono di fronte alle nostre inettitudini e, con rabbia, urlano quanto siamo inadeguati.

Hanno senso? Boh, comincio a pensare che non ce l’abbiano. Perché gli unici a prestavi attenzione sono quelli arrabbiati che si sentono defraudati e inneggiano alle verità finalmente espresse. Gli altri semplicemente passano oltre e proseguono a dire/fare/baciare/lettera e testamento come al solito.

Allora penso che abbia più senso soffermarsi non tanto su ciò che manca e ciò che andrebbe fatto, piuttosto sul perché le cose vadano così.

Ecco, le cose vanno così perché ognuno osserva la realtà dal suo minuscolo punto di vista infarcito di tutta la cultura retorica nella quale siamo immersi. Risponde al disagio altrui esattamente come ci hanno insegnato a fare: evitando, incitando, pacca sulla spalla, fortuna il tempo alla fine aggiusta tutto.

Tocca passarci per accorgersi che non va così, peccato che siamo tendenzialmente a compartimenti stagni, perciò se me ne sono accorto vivendo una certa esperienza, con fatica spalmo questa consapevolezza altrove. Quindi, punto e a capo.

Aspettarsi che le persone sappiano come fare è la frode del nostro tempo.

Ci imbottiamo di paroloni come educazione, solidarietà, inclusione, ma non sappiamo cosa stiamo dicendo.

Quindi cosa succede?

Accade che ci dividiamo in due squadroni: quelli che sanno e quelli che non capiscono un emerito.

E giù la lotta.

Perché la narrazione costante della nostra esistenza in questo pezzo di mondo, in questo particolare momento storico, non va al di là della guerra.

Facci caso: ho vinto, ce l’ho fatta, sfida superata, sono una/un grande! Ho fallito, non ce l’ho fatta, ritenta sarai più fortunata/o, sono una/uno sfigato.

Oppure…

Oppure possiamo cambiare il modo di raccontarci la realtà e ammettere che ognuno ha la propria, riesce ad interagire con la nostra in modo limitato, talvolta non ce la fa e non perché sia una/o inadeguata/o, ma perché ha la sua vita, i suoi problemi, il suo grado di permeabilità al dolore del mondo.

I decaloghi non servono, tanto non li legge chi dovrebbe.

Invece serve realizzare che tutto ciò che l’altro ci porta, anche se fa dannatamente male, è comunque un messaggio, utile per noi.

Oggi so che certe cose è meglio che non le dica, perché potrebbero far male; so che non posso sapere cosa l’altro sta passando, perché per quanto ci provi, non potrò mai sapere cosa significhi solcare il suo terreno con i suoi piedi dentro le sue scarpe; so che la velocità di questo mondo non aiuta gli umani, allora posso fare del mio meglio per rallentare, poiché non siamo noi a doverci adattare alla società ma dovrebbe essere la società a farsi ad immagine e somiglianza dell’umano.

Poi, potrei accorgermi che la rabbia che provo verso chi non capisce e si esprime con frasi discutibili, dice anch’essa cose: non mi rispecchio in ciò che mi stai dicendo, ma vorrei proprio avere qualcuno capace di accogliere ciò che porto. Ho bisogno dell’altro e quest’altro non sei tu. Ciò mi delude. Tu mi hai deluso. Tu sei come i più e invece speravo fossi diverso. Oggi però so cosa posso aspettarmi da te e non è ciò di cui ho bisogno. Evviva! Ho capito che io ho bisogno. Caspita… Ho bisogno.

Non sei tenuto a darmi ciò di cui ho bisogno, nessuno lo è. Però quel bisogno che oggi riconosco, posso provare a soddisfarlo in altri modi, non pretendendo che sia tu a colmarlo. In fin dei conti sei solo umano, anche tu come me, perciò potresti anche non sapere come fare. Non lo so nemmeno io, in effetti. Lo sapessi, avrei già colmato la mia necessità.

Siamo pari in questo. Grazie però, perché il tuo modo sgraziato di rapportarti a me mi ha chiarito ciò che non va bene in questo momento. Beh, ci saranno altre occasioni e chissà che non ci troveremo sulla stessa lunghezza d’onda e ci sentiremo in sintonia. Per ora, arrivederci.

Questa mania che abbiamo di pretendere che gli altri ci leggano nel pensiero e ci diano ciò che volgiamo senza considerare che anche loro vivono nel mondo miserabile in cui siamo noi, soli, distratti, pressati, asfissiati da un ritmo che non è dell’umano, è fastidioso e non porta il risultato sperato.

Cose da non dire…

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