accompagno le persone attraverso il lutto perinatale e il lutto

La memoria perduta

La memoria perduta

Fin dai tempi antichi i bambini morivano durante la gravidanza e anche allora non c’erano parole.

Tuttavia doveva esistere un sapere intimo, interiorizzato, maturato con l’esperienza. Era solito assistere al dipanarsi della vita nel luogo in cui essa si svolgeva, sotto gli occhi di tutti: la casa. I punti di svolta non erano celati, bensì condivisi. Le mura erano sottili, spesso la stanza era una sola e accoglieva tutto. Quel sapere doveva esistere e poi è andato perduto.

Da quando il parto e la morte sono stati trasferiti in ospedale, nessuno sembra conservare più la memoria di una realtà immutata.

Da allora nessuno ha più visto e ascoltato cosa fosse un parto, oltre gli operatori e le mamme che lo hanno vissuto sulla loro pelle. Nessuno ha più davvero portato con sé l’esperienza della morte nella nascita.

Si parte da casa con un ventre pieno e si torna con un ventre vuoto. I più attenti si accorgeranno del profondo mutamento nello sguardo di chi è uscito e poi rientrato… Per il resto sembra essere tutto come prima. Deve essere tutto come prima. Ci si aspetta che tutto sia come prima. Si chiede tacitamente che tutto almeno sembri come prima.

È segno di attenzione e riguardo verso il prossimo fare il possibile per non turbarlo. Sarebbe una vera cattiveria dimostrargli che, anche non pensandoci, può accadere che la vita sia aggredita dalla morte.

La morte è solo una sconfitta… e noi apparteniamo ad una società ottimista: perdere non ci piace. Così silenzio, per favore.

Trasferire il parto e la morte in ospedale ha obbligato gli operatori della salute a codificare gli eventi attraverso specifici termini affinché i protocolli della loro gestione fossero chiari.

Il bambino è embrione o feto; il bambino morto è prodotto del concepimento, prodotto abortivo; il parto è l’espulsione e così via.

Nulla di personale, tutto molto scientifico.

Parole che non descrivono affatto la situazione dei genitori, piuttosto descrivono il caso clinico che la scienza è chiamata a risolvere nel migliore dei modi.

Ecco perché, quando mi sono trovata di fronte all’evidenza, mi sono sentita completamente disorientata!

Io non avevo consapevolezza, coscienza, conoscenza di quel che ci era accaduto e nemmeno una di quelle parole mi era familiare. Ero in un nulla privo di contorni e senza riferimenti.

Avevo intrapreso il cammino dell’attesa perché desideravo avere un figlio, un bambino, un cucciolo d’uomo, non certo un feto: non conosco nessuno che definisca e immagini il proprio figlio come un feto.

Era tutto spersonalizzato, contraddittorio e mai nemmeno pensato come un fatto davvero realizzabile.

Non sapevo minimamente cosa volesse dire.

Perfino dopo, nessuno mi ha spiegato cosa fosse davvero, mi hanno solo detto che prima o poi sarebbe passato.

Prima o poi doveva passare: senza parole, senza forma e senza pensieri, che poteva restare?

Sarebbe potuto restare un dolore enorme che non si sa più dove mettere e che, nel tempo, rischia di inghiottire tutto.

Ho cominciato da una parola e ho messo in fila tutte quelle che sono venute di conseguenza.

Sono partita da una parola che fa paura, è innominabile, scandalosa, peggio di una bestemmia: morte.

Apprezzo particolarmente la parola morte e, nonostante sappia quanto allontani chi desidera proseguire a fare finta che la morte non esista (quasi tutti), continuo ad usarla, poiché è dentro questo termine che sta tutto ciò di cui non si sa più nulla e non si sono ancora trovate abbastanza parole per provare a spiegarlo.

Morte presuppone vita: muore solo chi vive.

Vuol dire che quei feti prima di morire erano vivi, che se sono stati vivi allora sono esistiti davvero; se sono esistiti allora erano le mie figlie, se erano le mie figlie allora io ero la loro madre e tutti noi una famiglia.

Ecco la nostra storia. Ecco la nostra situazione.

A quel punto mi occorreva pensare a come potere gestire questa cosa della morte.

Mi occorreva pensare cosa fosse per me la morte, cosa ne potessi fare, dove la potessi mettere, in che modo la potessi gestire.

La morte era qualcosa che non conoscevo troppo bene, ma che non avvertivo come negativa, nemmeno ora che la conosco un poco di più la avverto così.

La morte fa male a chi resta, ma non è detto che sia un male per chi va: nessuno è mai tornato a dirci che sia orrenda e non è detto che sia perché non abbia potuto, forse non ha proprio voluto, chissà.

Per me che resto la morte è assenza di colui che ho perso per sempre.

Non avrò più un futuro con lui, ma posso ancora godere del passato che abbiamo condiviso.

Ho ancora una scelta: la morte non è la fine di tutto, ma è l’inizio di un cambiamento.

Per la mia sensibilità, il mio retaggio, la mia educazione, la morte è la fine della relazione con colui che è morto.

Fine significa che non riesco ad immaginare un modo per continuare a fare, tuttavia ciò non esclude che possa continuare ad essere.

Con le mie figlie si è tradotto con un pezzo iniziale di percorso in cui ho proseguito a fare la loro madre: le ho seppellite e ho cercato il modo di staccarmi da loro. Finché ho smesso di fare la loro mamma: le ho lasciate andare.

Loro nella mia vita non ci sono più: non parlo con loro, non mi rivolgo a loro, non le commemoro, non accendo candele, non le rimpiango, spesso le dimentico, qualche volta le ricordo.

Tuttavia proseguo ad essere la loro madre: la mia breve maternità non è cancellata per sempre, ma resta come una mia preziosa esperienza di vita personale, ora conclusa.

Quanta fatica ho fatto nel percorrere questo cammino! Chissà… se avessi saputo cosa stesse dentro il mutamento degli sguardi che ho incrociato, sarebbe stato meno faticoso?

Forse sarebbe stato un poco più familiare…

Vorrei vedere riformarsi la memoria che è andata perduta.

Per questo frequento l’ambito della maternità interrotta. Vorrei che recuperassimo una certa memoria e ci aggiungessimo un vocabolario adeguato, più aderente ai tempi moderni e alternativo della spersonalizzazione medica.

A ben rifletterci, in questo modo sto proprio facendo la mamma, per come la so fare.

Metto in atto tutto ciò che posso per cercare di lasciare ai figli che vedo crescere, almeno la briciola di un mondo migliore.

Mi preoccupo che trovino più cultura di quanta ne abbia trovata io, dato che so quanto sia effettivamente possibile che tocchi anche a loro un’esperienza simile. Cerco di rifornire il nostro presente di quelle informazioni esperienziali, visive e pratiche che permettono di interiorizzare una mappa, capace di offrire un primo orientamento, qualora capitasse loro di incontrare una analoga zona d’ombra.

In tal caso si troverebbero anche loro disorientati di fronte all’ineluttabile, ma non quanto me, spero.

La memoria perduta

Pubblicato per la prima volta il 27 agosto 2016

Commenta